gratias a la vida

mercoledì 31 marzo 2010

Elezioni: chi ride, chi piange.


Massimo Bonfatti:

Chi è sempre contento
(I politici: tutti hanno vinto!).
Brutta campagna elettorale,
brutte votazioni, brutto futuro.

A me non resta che una
"SMISURATA PREGHIERA"

Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi
del disastro dalle cose che accadono
al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità

Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite
battaglie al calar della sera,
la maggioranza sta.

La maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie

Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta,
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria

col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità.

per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro
posticcio e seminò il suo passaggio di gelosie
devastatrici e di figli con improbabili nomi
di cantanti di tango in un vasto programma di
eternità.

Ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco... non dimenticare il
loro volto che dopo tanto sbandare è appena

giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere

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Legittimo firmamento
di Marco Travaglio
Le leggi vergogna si dividono in due categorie: quelle che servono a B. e le altre. Riconoscerle è facilissimo: quelle che servono a B., cioè le più incostituzionali, Napolitano le firma all’istante; le altre, quelle un po’ meno incostituzionali, no. Così B. vince sempre e gl’italiani mai. Un anno fa il presidente anticipò addirittura al Consiglio dei ministri riunito d’urgenza che non avrebbe firmato il decreto contro Eluana, raro caso di legge vergogna che non riguardava B. Così il premier fece bella figura col Vaticano, il Quirinale fece bella figura con gli italiani, e la bottega di Arcore non subì danno alcuno. Ieri il capo dello Stato, a quattro anni dalla sua elezione, ha rispedito al mittente la sua prima legge: il ddl sul lavoro (Repubblica l’aveva anticipato il 15 marzo, subendo una furibonda e incredibile smentita del Quirinale). E non perché lo ritenga “palesemente incostituzionale”, come i corazzieri della penna sono soliti interpretare l’art. 74 della Costituzione per dar sempre ragione al presidente firmaiolo. Ma semplicemente perché non gli piace: parla di “estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni”. Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, il Colle può respingere alle Camere le leggi che non condivide. E, se non l’ha mai fatto fino a ieri, vuol dire che condivideva delizie come il mega-indulto esteso ai colletti bianchi (2006), il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom (2007), le leggi razziali del pacchetto sicurezza e il lodo Alfano (2008), lo scudo fiscale (2009) e il decreto salva-liste (2010). O almeno non le riteneva viziate da “problematicità” alcuna. Il che è curioso, ma perfettamente legittimo. Purché non ci venga a raccontare che era obbligato a promulgarle perché “non manifestamente incostituzionali” o perché “se non le firmo la prima volta me le rimandano uguali e devo firmarle la seconda”. Ieri infatti il governo ha annunciato che “modificherà il ddl sul lavoro tenendo conto delle osservazioni del Quirinale”: prima di arrivare allo scontro frontale con Napolitano riscrivendo tale e quale una legge appena respinta, B. ci pensa due volte. Forse, se il presidente avesse respinto pure il lodo e/o lo scudo, oggi non avremmo un premier corruttore impunito né uno Stato che ricicla denaro sporco. A pensar male si fa peccato ma spesso ci s’azzecca: non vorremmo che il capo dello Stato avesse dato un contentino ai critici respingendo una legge che non riguarda B., e ora si preparasse a promulgare tranquillamente quella molto più indecente che salva B. dai processi: il “legittimo impedimento” varato a metà marzo e ancora appeso al Quirinale causa elezioni. Perché questa non è solo una legge che può piacere o meno per motivi di eterogeneità, complessità e problematicità. E’ certamente e palesemente incostituzionale. Lo dicono presidenti emeriti della Consulta come Valerio Onida. Lo ammette l’onorevole difensore del premier Pietro Longo: “Il legittimo impedimento finisce alla Corte”. E l’ha già detto in due sentenze la Consulta. Nel 2001, pronunciandosi sugli impedimenti di Previti, affermò che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. Nel 2008, fulminando il lodo, definì “irragionevole e sproporzionata” la “presunzione legale assoluta di legittimo impedimento” dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti per le alte cariche valgono “solo per lo stretto necessario”, “senza alcun meccanismo automatico e generale”; e cassò la norma immunitaria fatta con legge ordinaria. Ora, il legittimo impedimento per il premier e i ministri è automatico per ben 18 mesi ed è stato imposto con legge ordinaria. Quindi ora Napolitano smentirà i malpensanti e, dopo la legge sul lavoro, boccerà a maggior ragione anche quello. O no?

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In poche parole, un’altra Caporetto di Marco Travaglio

Mentre il Pdl di Menomalechesilvioc’è perde 8,5 punti in un anno e tocca il minimo storico, la Lega lo asfalta al nord e Fini può rivendicare i successi in Lazio e Calabria con i suoi Polverini e Scopelliti, soltanto il vertice del Pd poteva trasformare la débâcle berlusconiana in una Caporetto del centrosinistra (fra l’altro, scambiata per una vittoria). Bersani, cioè D’Alema e i suoi boys (almeno quelli rimasti a piede libero), ce l’han messa tutta per perdere le elezioni più facili degli ultimi anni e, alla fine, possono dirsi soddisfatti. In Piemonte hanno candidato una signora arrogante e altezzosa, bypassando le primarie previste dallo statuto del Pd per evitare di dar lustro al più popolare Chiamparino e riuscendo nell’impresa di consegnare il Piemonte a tale Cota da Novara per solennizzare degnamente il 150° dell’Unità d’Italia. A Roma, la città del Papa, hanno subìto la candidatura dell’antipapista Bonino per mancanza di meglio (il meglio ce l’avevano, Zingaretti, ma l’hanno nascosto alla Provincia per evitare che, alla tenera età di 45 anni, prendesse troppo piede), poi l’han pure lasciata sola per tutta la campagna elettorale. In Campania, calpestando un’altra volta lo statuto, hanno sciorinato un signore che ha più processi che capelli in testa perché comunque era “un candidato forte”: infatti. In Calabria han ricicciato un giovin virgulto come Agazio Loiero, che quando ha perso come tutti prevedevano si è pure detto incredulo, quando gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio. Non contenti, questi professionisti del fiasco, questi perditori da Oscar le hanno provate tutte per fumarsi anche la Puglia, candidando un certo Boccia che perderebbe anche contro un paracarro, ma alla fine hanno dovuto arrendersi agli elettori inferociti e concedere le primarie, vinte immancabilmente dal candidato sbagliato, cioè giusto. Hanno inseguito il mitico “centro” dell’Udc, praticamente un centrino da tavola all’uncinetto, perché “guai a perdere il voto moderato”. Infatti gli elettori sono corsi a votare quanto di meno moderato si possa immaginare: oltre a Vendola, i tre partiti che parlano chiaro e si fanno capire, cioè Lega, Cinque Stelle e Di Pietro. Altri, quasi uno su due, sono rimasti a casa o han votato bianco/nullo, curiosamente poco arrapati dai pigolii del “maggior partito dell’opposizione” e dal suo leader, quello che “vado al Festival di Sanremo per stare con la gente” e “in altre parole, un’altra Italia”. Se, col peggiore governo della storia dell’umanità, l’astensionismo penalizza più l’opposizione che la maggioranza, un motivo ci dovrà pur essere. L’aveva già individuato Nanni Moretti nel lontano febbraio 2002, quando in piazza Navona urlò davanti al Politburo centrosinistro “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Sono gli stessi che sfilano in tutti i salotti televisivi, spiegando che la Lega vince perché “radicata nel territorio” (lo dicono dal 1988, mentre si radicano nelle terrazze romane o si occupano di casi urgentissimi come la morte di Pasolini) e alzando il ditino contro Grillo, che “ci ha fatto perdere” e “non l’avevamo calcolato”. Sono tre anni che Beppe riempie le piazze e li sfida su rifiuti zero, differenziata, no agli inceneritori e ai Tav mortiferi, energie rinnovabili, rete, acqua pubblica, liste pulite, e loro lo trattano da fascistaqualunquistagiustizialista. Bastava annettersi qualcuna delle sua battaglie, sganciandosi dal partito Calce & Martello e dando un’occhiata a Obama, e lui nemmeno avrebbe presentato le liste. Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta. Ma quelli niente, encefalogramma piatto. Come dice Carlo Cipolla, diversamente dal mascalzone che danneggia gli altri per favorire se stesso, lo stupido danneggia sia gli altri sia se stesso. Ecco, ci siamo capiti. Ce n’è abbastanza per accompagnarli, con le buone o con le cattive, alle loro case (di riposo). Escano con le mani alzate e si arrendano. I loro elettori, ormai eroici ai limiti del martirio, gliene saranno eternamente grati.

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